Certe volte proprio non c’ha voglia. E si vede. Pare che lo spediscano a sua insaputa dall’altra parte del mondo e che lo lascino lì con la racchetta in mano, sul cemento rovente, dove la pallina rimbalza senza sbavature su una superficie chirurgicamente perfetta; dove sono tutti lì a fare bum bum e alla fine vince chi tira più forte e perde chi a ‘na certa alza bandiera bianca e non riesce più a rispedirla dall’altra parte. E lui si annoia, magari, e con la testa è ancora a Ibiza, nel bel mezzo di una notte senza fine popolata di amici e di fregna. È un cinghialotto selvatico di 22 anni, Alcaraz, e come ha dichiarato lui stesso, “non è ossessionato dall’idea di essere il migliore al mondo”. Non c’è solo il tennis nella vita. Lui non è come i suoi colleghi della scuola spagnola, tutto sangue, sudore e sacrificio. E loro lo sanno che per Alcaraz sparare un dritto in corridoio non è una disgrazia da dover espiare con duecento frustate sulla schiena; lo percepiscono come un alieno e un po’ se ne rammaricano: il suo allenatore, re Juan Carlos Ferrero - una specie di negriero che impone ai suoi allievi una disciplina di ferro - a volte dubita che possa diventare il più grande di tutti e in molti cominciano a chiedersi per quanto tempo ancora continuerà ad allenarlo. Anche il collega e connazionale Bautista Agut - e di sicuro tanti altri come lui - la pensa allo stesso modo: con tutto il talento che hai - si sarà detto - pensi ad andare in discoteca? Io ho passato la mia vita a spaccarmi il culo: guarda com’è diventata la mia faccia: un teschio di argilla; guarda come mi sono ridotto - e guarda, nonostante tutto, quanto sono scarso rispetto a te…
Quando Alcaraz perde, insomma, sono tutti contro di lui; fanno tutti a gara nel rimetterlo in discussione. E da quella vittoria a Wimbledon nel 2024 - la seconda in carriera sull’erba londinese - le cose non sono andate come Ferrero sperava. Sinner ha preso sempre più il volo, mentre lo spagnolo ha perso terreno, tra infortuni e prestazioni opache, “precipitando” al terzo posto della classifica ATP e facendosi sorpassare persino da Zverev (!). Il 2025 è cominciato anche peggio: ha perso contro Djokovic (che praticamente ha giocato su una gamba sola) ai quarti dell’Australian Open, poi ai quarti in Qatar contro il ceco Lehecka, poi in semifinale a Indian Wells contro un Draper on fire e a Miami addirittura al primo turno contro il redivivo Goffin. È riuscito a vincere a Rotterdam, questo è vero, battendo il solito De Minaur (poveretto!) in finale, ma il bottino, in fin dei conti, è stato misero, soprattutto per chi sperava che potesse approfittare della sospensione di Sinner, il suo più grande rivale, per soffiargli il primato.
Poi sono tornati tutti in Europa: Alcaraz affonda le sue zampe sulla terra rossa di Montecarlo e ritrova il sorriso. Non ne ha mai fatto un mistero: su quella superficie si sente perfettamente a suo agio e il suo tennis ritrova tutta la sua brillantezza. Proprio come il nostro artista Lorenzo “Il Magnifico” Musetti, sulla terra Carlitos può pennellare, inventare, sorprendere e nutrirsi degli imprevisti - come un rimbalzo anomalo o una folata di vento - per trovare quella soluzione vincente che solo il suo talento e il suo istinto sono in grado di mettere in atto. E tutto ciò per la gioia infinita degli spettatori, che hanno il privilegio di poter godere di tanta meraviglia: potenza, virtuosismi, colpi spettacolari, recuperi impossibili, tutto il repertorio torrenziale e sorprendente che fa la cifra stilistica peculiare (e unica) dello spagnolo. Assieme allo spettacolo arrivano anche i risultati: Alcaraz si impone proprio contro Musetti (un po’ acciaccato) in finale nel Principato, poi perde contro Rune in finale a Barcellona - probabilmente a causa di un problema fisico che lo costringerà a saltare Madrid - e infine si prende il trionfo (per la prima volta) a Roma, spezzando il cuore ai tifosi italiani: prima eliminando ancora una volta Lorenzo Musetti e poi piegando l’altro beniamino di casa Jannik Sinner, interrompendo così la striscia di 26 vittorie consecutive dell’altoatesino che durava dall’ottobre del 2024, cioè da quella memorabile finale di Pechino in cui fu battuto proprio dallo spagnolo.
Che si tratti di cemento o di terra rossa, di marmo o di fango, una cosa è chiara: Carlitos non ha nessuna intenzione di perdere contro Sinner. È come se ogni volta volesse lanciargli un messaggio: tu sei il numero uno al mondo, ma io sono comunque più forte di te. I celeberrimi blackout di rendimento dello spagnolo - anche sul singolo match -, che di sicuro riescono a far impazzire di rabbia il suo team, scompaiono magicamente quando si tratta di affrontare l’italiano. Ne abbiamo avuto l’ennesima conferma sul Centrale del Foro Italico. Sinner era reduce da un percorso fenomenale dopo lo stop di tre mesi dovuto al caso Clostebol. Il “cavaliere roscio”, o meglio, il “cavaliere nero” si è presentato davanti al pubblico di casa in versione Terminator, con il doppio dei muscoli e più spietato e letale che mai. Il culmine di questo nuovo Sinner 3.0 è stata la partita contro Ruud, uno dei più grandi specialisti sulla terra, due volte finalista al Roland Garros e reduce dal successo ai Masters 1000 di Madrid, a cui ha lasciato solo un game, giocando “la partita più vicina alla perfezione” che il suo avversario abbia mai visto. Molti di noi - al contrario di Agassi o dello stesso Musetti - hanno pensato che Sinner avesse trovato la chiave per dominare anche sul rosso e che non ce ne fosse più per nessuno…
E invece Alcaraz ha dimostrato che se vuole, sa come tirare fuori il meglio di sé; che se vuole, sa essere più oculato nella gestione della partita, contenere la sua foga anarcoide e limitare i gratuiti, ma senza perdere la sua attitudine istintiva da predatore sanguinario. “Sulla terra la palla devi andartela a prendere” - ha dichiarato Adriano Panatta dopo la finale di Roma. Ed è esattamente ciò che Alcaraz sa fare e ha fatto. Alla sua maniera. Mai come in questa finale abbiamo avuto la dimostrazione che la fortuna aiuta gli audaci: lo spagnolo ha osato, ha preso dei rischi nei momenti decisivi ed è riuscito a salvare due clamorose palle break sul 5-6 del primo set che avrebbero potuto ribaltare completamente l’esito del match; poi, malgrado un doloroso doppio fallo, ha giocato un tie-break arrembante che gli ha garantito il primo parziale e infine si è liberato definitivamente dalla comprensibile tensione che sembrava attanagliare entrambi gli sfidanti e ha dilagato nel secondo set con un tennis da manuale, complice anche una condizione fisica non al top da parte di Sinner.
Ma l’impressione è che Alcaraz abbia vinto con la testa prima ancora che grazie al suo tennis: è come se Sinner abbia una sorta di complesso di inferiorità nei confronti dello spagnolo o senta più del dovuto il peso di una sfida che in fondo rischia ogni volta di confermare ciò che in molti pensano, e cioè che lo spagnolo sia più forte di lui. È come se la sua proverbiale freddezza, quella consapevolezza di essere il numero uno che lo porta a cavarsela sempre e comunque nei punti decisivi, quando si tratta di affrontare Alcaraz scompaia e che la paura abbia la meglio. Anche in semifinale contro Tommy Paul le cose si stavano mettendo male, ma alla fine gli è bastato portare a casa quell’unico game nel primo set o notare qualche microscopica incertezza nell’attitudine dell’avversario - autore di una delle migliori performance della sua carriera, tra l’altro - per recuperare la fiducia e ribaltare brutalmente il risultato.
Alcaraz lo ha dichiarato alla vigilia della sfida contro l’altoatesino: tra di loro c’è rispetto, ma non sono amici. “Non si può essere amici dell’avversario che si vuole battere”, ha detto. Ed è giusto che sia così. Perché è molto probabile che questi due si ritroveranno a giocare molte finali - sicuramente più importanti di questa - e che la posta in gioco sarà il dominio sul tennis mondiale. Quindi perché essere ipocriti? Sinner, insomma, ha ancora una bestia nera - probabilmente la più dura - da dover esorcizzare: è già capitato con Zverev, con Medvedev e con Djokovic - e con tutti e tre alla fine ha trovato la soluzione. Col tempo abbiamo imparato a conoscerlo: sta studiando per capire come fare per battere la furia spagnola e prima o poi ci riuscirà. Per Sinner ogni sconfitta è un’occasione per imparare, per correggere eventuali difetti, per migliorarsi.
Alcaraz - lo sappiamo - è un predestinato. Lo è anche Sinner, ovviamente, ma il suo talento, più che negli aspetti puramente tecnici, risiede - come lo fu per Lendl o per lo stesso Djokovic - principalmente nel perfezionismo quasi maniacale, nella capacità di lavorare duro su ogni dettaglio, e non a caso la sua evoluzione tennistica è stata una crescita costante e lineare, agli antipodi dagli alti e bassi di Alcaraz, che invece ha il problema opposto: quello di trovare regolarità e disciplina, anche quando non gliene frega niente di giocare a tennis. Ora dovrà risolvere il problema, perché per giocare contro Sinner - l’unica partita in grado di motivarlo per davvero? - dovrà per forza arrivare fino in fondo ai tornei.
La prossima sfida tra i due potrebbe essere proprio in finale al Roland Garros, di sicuro non nei turni precedenti, quindi, e in quel caso vedremo se Sinner avrà imparato qualcosa in più e se sarà capace di insidiare maggiormente lo spagnolo - o se addirittura riuscirà finalmente a spuntarla. Non sarà facile, perché lo Slam francese è probabilmente il torneo più impegnativo della stagione sul piano fisico e - come possiamo facilmente immaginare - gli altri sfidanti assetati di vittoria non staranno di certo a guardare. Ma Sinner ci sta abituando al sovrumano e crederci, in fondo, non costa nulla.