Sanguina ancora, ma Sinner - come Federer - resta un magnifico perdente
Istruzioni per sopravvivere alla finale più spettacolare (e più dolorosa) della storia del Roland-Garros.
Mi hanno accoltellato di nuovo: sei anni fa a Londra; domenica scorsa a Parigi. E fa male, cazzo. Fa malissimo. All’epoca Novak Djokovic si impose sull’erba di Wimbledon in cinque set contro Roger Federer. Lo svizzero fallì due maledetti match point - simbolicamente impersonati da una sciura bionda in piedi sugli spalti che ebbe la presunzione di voler festeggiare prima del tempo - e finì per perdere disgraziatamente al tie-break del set decisivo pur avendo messo a segno più punti (e avendo giocato meglio?) del serbo. Stavolta, invece, una sorte molto simile è toccata al nostro Jannik Sinner, che ha avuto la partita in pugno, ma è riuscito nell’impresa di sprecare tre palle match sul servizio dell’avversario (erano 2 set a zero, 5-3 al quarto, 0-40) e successivamente di farsi contro-breakkare proprio quando doveva servire per portarsi a casa con pieno merito il suo primo titolo a Parigi, cioè quando quasi tutti pensavamo che quel braccio di ferro durato più o meno tre ore fosse finito lì e che lì iniziasse il giubilo. Anche in questo caso l’altoatesino, pur perdendo la partita, ha segnato un punto in più dell’avversario (193 a 192), e anche in questo caso, purtroppo, il tennis si è confermato essere “lo sport del diavolo”, per dirla con Panatta.
Non importa che sia un solo misero punto a separarti dalla vittoria: quel punto bisogna comunque realizzarlo. Se lo porti a casa alzi la coppa al cielo, sennò rischi che il fantasma dell’occasioni sprecate ti avveleni il cervello - e di conseguenza anche tutto il resto del corpo - e che contemporaneamente quelle stesse occasioni sprecate permettano allo spirito dell’avversario di rigenerarsi, di rinvigorirsi, di trovare nuove insperate risorse, anche se fino a un attimo prima sembrava ormai essersi rassegnato a soccombere: basta poco, in fin dei conti, per invertire l’inerzia di una partita equilibrata e ribaltare un risultato. Perché questo avvenga, però, come è accaduto nelle due occasioni appena citate, c’è bisogno che in campo ci siano due campioni veri. Non a caso Djokovic e Federer sono due leggende del tennis e Sinner e Alcaraz - pur essendo ancora giovanissimi - lo sono probabilmente già diventati, perché con questa finale al Roland-Garros, la più lunga (quasi 5 ore e mezza di battaglia senza esclusione di colpi), la più spettacolare e la più imprevedibile della storia del torneo, hanno scritto una pagina indimenticabile della storia di questo sport.
Ma tra quella finale del 2019 e questa di domenica scorsa non ci sono solo analogie, ovviamente. All’epoca, infatti, il vincitore riuscì a spuntarla nonostante l’intero stadio sperasse nel risultato opposto. In quell’occasione, infatti, tutto il Centre Court fece un tifo spudorato per Federer, sia perché lo svizzero è sempre stato considerato il miglior giocatore della storia sull’erba (e in un certo senso il simbolo, per successi, tecnica ed eleganza, del giardino londinese), sia perché Djokovic, con il suo carattere fumantino e ribelle, ha sempre interpretato il ruolo del guastafeste, di colui cioè che da un giorno all’altro si è immischiato in qualità di terzo incomodo nella cavalleresca rivalità tra i due gentlemen Federer e Nadal, finendo per batterli entrambi a più riprese e polverizzando i loro successi in termini statistici. Il serbo, abituato a gestire con destrezza gli ambienti che gli sono ostili, si è nutrito per sua stessa ammissione dell’odio del pubblico, trasformandolo in una sorgente di fame agonistica che si rivelò fondamentale per strappare a Federer i punti decisivi. La classica scenetta finale con Novak piegato sulle ginocchia che agguanta un ciuffo d’erba del centrale e mastica guardando il pubblico con l’aria di chi l’ha messa in culo a tutti, è ormai storia.
Nel caso della finale di Parigi, è stato Sinner a trovarsi nei panni di Djokovic. Per quale motivo? Faccio fatica a spiegarmelo. Ma certo è che se il pubblico è stato capace di intonare all’unisono il coro “Carlos, Carlos!” dall’inizio alla fine della partita e non è riuscito a trattenere l’entusiasmo neanche mentre lo spagnolo, essendosi accorto del calo fisico dell’italiano nel quinto set, lo massacrava a suon di smorzate letali - facevano male le gambe perfino a me, che stavo davanti alla tv, figuriamoci a chi era lì di persona -, un motivo ci sarà pur stato. Penso che Alcaraz piaccia al pubblico più di Sinner, proprio come Federer piaceva più di Djokovic. C’è di mezzo senz’altro una motivazione squisitamente sportiva: lo spagnolo ha un gioco più vario, più creativo, più spettacolare e rappresenta il tipico giovane arrembante tutto muscoli, genio e sregolatezza; mentre Sinner, proprio come Djokovic, gioca un tennis percentuale meno vistoso, più basato sulla solidità e sulla regolarità - e come se non bastasse, pur essendo così “noioso”, è praticamente diventato imbattibile da più o meno un anno e mezzo. Un talento puro da una parte, un professionista serio e scrupoloso che si sta costruendo un pezzo alla volta dall’altra.
I rispettivi stili di gioco di questi due campioni riflettono a loro volta due personalità diametralmente opposte: se Alcaraz è il tipico ragazzone che ama divertirsi (e divertire), andare a ballare in discoteca e spizzare le foto delle fighe su Instagram, Sinner è un giovane-vecchio, per così dire, una specie di pastore protestante umile e discreto, di certo meno avvezzo ai gesti plateali e agli eventi mondani rispetto a tanti suoi colleghi. Che il grande pubblico da stadio, dunque, per forza di cose un po’ più superficiale dell’appassionato medio, preferisca l’uno anziché l’altro ci può stare - per chi avrei tifato se Sinner non fosse stato italiano? Sinceramente non saprei… -, ma farlo in maniera così spudorata, celebrando gli errori (o non celebrando i punti clamorosi) di un ragazzo di ventitré anni che, pur andandoci sempre molto vicino, non è quasi mai riuscito a battere l’avversario che aveva di fronte, non è solo di cattivo gusto (oltre a non fare onore al tennis), ma è proprio un’infamata. E mi riferisco anche (e soprattutto) a tutti quei VIP, nani e ballerine presenti sugli spalti: da quella faccia di cazzo di Spike Lee a quel giocatore di football di cui ignoro il nome - un tamarro barbuto che si sarà scommesso la villa di Miami sulla vittoria del suo pupillo -, fino a quella mummia incartapecorita che è ormai diventato Dustin Hoffman. Come si può manifestare in maniera tanto plateale una tale mancanza di sensibilità? Mi dispiace raga’, ma stavolta avete proprio toppato.
Fortuna che Sinner, in fin dei conti, se ne frega. Lui vola alto, sempre più in alto di tutti, sia di chi proprio non lo può digerire, sia dei suoi stessi tifosi. Dopo una tragedia in cinque atti vissuta da gladiatore nel centro di un’arena ostile, costretto a resistere disperatamente al progressivo sgretolamento di un vantaggio costruito con pazienza e dedizione fino all’inevitabile sconfitta, senza mai perdere il suo proverbiale aplomb - a differenza del rivale, che ha comunque fatto bene ad approfittarne aizzando le folle -, neanche di fronte alle scorrettezze degli spettatori e alle incertezze arbitrali, è riuscito comunque a trovare le risorse per ringraziare tutti: l’avversario (che lo ha disossato), il pubblico (che lo ha lasciato solo) e perfino i raccattapalle. Una roba dell’altro mondo, che secondo me non ha niente a che vedere con una presunta paraculaggine. “Carlos è un giocatore che piace tanto al pubblico, quindi ci sta - ha ribadito nel dopo partita con la sua consueta lucidità -. Il pubblico è importante in questo sport, a volte ti aiuta, a volte no, ma credo che a volte ha aiutato anche me, quindi va bene così”. Come avrebbero reagito, sia durante il match che in conferenza stampa, personaggi come Djokovic, Zverev e tanti altri ancora?
Non saprei dire se l’affaire clostebol - in particolare la delicata faccenda del patteggiamento - abbia giocato un ruolo nella percezione (a mio avviso distorta) dell’immagine dell’altoatesino da parte degli appassionati di tennis - e anche di tanti colleghi -, molti dei quali - basta fare un giro sui social - continuano a diffamarlo impunemente e a insultarlo definendolo “dopato” o “imbroglione” e facendo finta di ignorare la sua estraneità ai fatti che gli vengono contestati. Fatto sta che una leggera tendenza anti-Sinner l’ho percepita anche in cabina di commento. Su Prime i telecronisti e gli esperti si esaltavano regolarmente sui colpi di Alcaraz, ma erano molto meno propensi a farlo con quelli di Sinner. Anche in questo caso: ci può stare. Ma un commento tecnico non dovrebbe valorizzare anche le azioni meno appariscenti di una partita comunque epocale in cui i due contendenti sono stati in grado di giocare alla pari per cinque ore e mezza?
L’ottimo Frédéric Verdier, che apprezzo e ammiro da sempre, ha definito “passing degno di un taglialegna” il colpo con cui Sinner ha risposto all’ennesima crudelissima smorzata di Alcaraz. Erano al quinto set e Jannik praticamente non si teneva più in piedi: c’era davvero bisogno di utilizzare quell’espressione? Poi la regia ha staccato su Spike Lee - uno stronzo mai visto - che se la rideva mimando la volée successiva con cui Alcaraz, sempre secondo Verdier, “ha trasformato quell’azione in una meraviglia”, umiliando - giustamente, per carità - l’avversario. Il trionfo di Alcaraz, insomma, che si è portato a casa il suo quinto Slam - il secondo consecutivo a Parigi -, sembra aver accontentato un po’ tutti coloro che pensano da sempre che sia lui il più forte (nonostante resti il numero due in classifica), tra cui molti italiani (perché no?) a cui magari il suo perfezionismo ricorda tristemente i propri difetti e anche molti tifosi di Nole, talmente idioti da non rendersi conto che Sinner è quasi la sua copia carbone, la sua versione riveduta e corretta (e magari un po’ più educata). Ebbene, possono tirare un sospiro di sollievo: l’argomento che utilizzano per camuffare il loro rosicamento è ancora valido: Sinner non riesce a battere Alcaraz, quindi non è il più forte di tutti.
Dopo quella terribile finale del 2019 Roger Federer - che dichiarò a L’Equipe che se avesse potuto rigiocare un punto tra tutti quelli giocati in carriera avrebbe scelto il secondo match point di quella partita -, non riuscì più a vincere uno Slam e all’età di 39 anni inaugurò di fatto la parabola discendente che lo condusse lentamente al ritiro, anche a causa del riacutizzarsi di un problema al ginocchio destro. Ma Sinner - evidentemente - non può fare la sua stessa fine: ha il dovere di reagire, di voltare pagina. E di farlo al più presto. La delusione c’è ed è palpabile, come è normale che sia, a maggior ragione per chi come lui è un professionista meticoloso che non lascia niente al caso. Questa rivincita tanto attesa, che sarebbe stata la più importante, la prima contro il rivale spagnolo in una finale Slam, era stata coscienziosamente studiata a tavolino con il suo team. A Roma - dove Alcaraz gli aveva sottratto il trofeo di casa - aveva preso gli ultimi appunti che a Parigi avrebbe dovuto mettere a frutto. È riuscito ad applicare tutte le consegne quasi alla perfezione, come suo solito, ma gli è bastato fallire un punto al momento giusto, quell’unico misero punto, per mandare tutto all’aria. E ora dobbiamo tutti sperare che quell’occasione sprecata con un rovescio un po’ lungo sulla seconda di servizio del rivale, atterrato un paio di centimetri oltre la riga di fondo, non comprometta il suo istinto da killer e quell’aura di imbattibilità che gli permetteva di vincere gran parte delle partite ancora prima di scendere in campo.
Per farlo dovrà tornare a lavorare ripartendo dagli aspetti positivi. Il primo è che Sinner si sta avvicinando sempre di più ad Alcaraz, anche sulla terra, superficie di predilezione dello spagnolo: due tornei giocati, due finali perse contro il più grande interprete al mondo del gioco sul rosso - l’anno scorso, invece, si fermò in semifinale sia a Montecarlo che a Parigi. Questa sconfitta, dunque, non segna un passo indietro, ma un passo in avanti, come accade da quando Sinner è entrato in scena nel circuito maggiore. La differenza rispetto alla sconfitta in semifinale al quinto dell’anno scorso - sempre contro Alcaraz - è evidente: stavolta è praticamente riuscito a chiudere la partita in quattro set, una roba che se fosse finita così avrebbe fatto gridare al miracolo. La testa e il fisico, inoltre, ci sono alla grande, perché se non ce li hai non giochi un quinto set come quello che abbiamo visto, con un break strappato con le unghie e con i denti sul 5-4. In più ora si andrà prima sull’erba e poi sul cemento, dove di sicuro Sinner sarà ancora più competitivo. E ci tornerà da numero uno del mondo, non dimentichiamolo, con duemila punti di vantaggio su Alcaraz.
Tuttavia sarebbe bene ripartire anche da ciò che ha funzionato meno, perché i tasti dolenti ci sono, così come c’è il margine per trovare una soluzione e alzare ancora di più l’asticella. Durante la sfida epocale contro Alcaraz, Sinner ha messo dentro il 56% di prime palle. È vero che questo dato conta solo relativamente sulla terra, ma la percentuale è comunque troppo bassa, soprattutto per un giocatore come Sinner che ha bisogno della sua prima per risolvere facilmente un punto quando la storia si mette male. La seconda di servizio, invece, a me sembra perfetta così: è affidabile - va ricordato che Sinner ha concesso solo due doppi falli in tutto il torneo (!!!) -, precisa e fastidiosa al punto giusto per l’avversario. Resta il dritto a cui dare una sistemata: troppi gli errori, più o meno gratuiti, sia contro Djokovic in semifinale che in finale contro Alcaraz.
Ma stiamo comunque parlando di accorgimenti che di certo non gli garantirebbero una vittoria nel caso di un’ipotetica rivincita in finale a Wimbledon. Se è vero che Sinner e Alcaraz sono su un altro pianeta rispetto a tutti gli altri tennisti del circuito - a tal punto che guardando il quarto di finale tra Djokovic e Zverev sembrava che la palla si muovesse al rallentatore - è anche vero che la differenza tra i due è quasi impercettibile, proprio come accadeva tra i “Big Four”: basta dare un’occhiata alle statistiche per rendersene conto. Il resto è questione di stile: lo spagnolo funziona con delle fiammate improvvise durante le quali è capace di giocare un tennis alieno - come quando ha sventato la minaccia di un break all’ultimo minuto sul 6-5 del quinto o come quando ha dominato il super tie-break -, mentre Sinner è in grado di mantenere un ritmo costante, ma su un livello disumano.
Le partite tra i due, da sempre, si giocano sul filo di lana: il match point annullato a Sinner ai quarti dello Us Open nel 2022, lo smash sbagliato l’anno scorso al Roland-Garros, il tie-break lunare di Carlos al termine della finale di Shanghai, sempre l’anno scorso. Ma bisogna assolutamente evitare che sul piano mentale il confronto con Alcaraz si trasformi in una sorta di complesso di inferiorità, sennò questo si prende tutto. E noi tifosi, che dopo questa sconfitta al Roland-Garros saremo di sicuro più numerosi e più appassionati di prima - spesso sono i passi falsi ancor più delle vittorie a favorire l’innamoramento incondizionato - non abbiamo nessuna intenzione di permetterglielo.