Il dominio “statistico” di Novak Djokovic sugli altri due “Big Three” e quello attuale del suo erede naturale Jannik Sinner sul resto del circuito sono la prova provata di quanto il cosiddetto “tennis percentuale” possa risultare efficace in termini di risultati. Solidità e potenza da fondocampo, resistenza fisica, tenuta mentale e meticolosa gestione dei rischi fanno ormai parte del manuale del perfetto tennista contemporaneo al quale chiunque intenda farsi strada tra i migliori del mondo è tenuto a prestare fede, con l’unico inconveniente di provocare un sentimento spiacevole nel cuore dello spettatore medio: una noia mortale.
In un suo recente - e molto discusso, se non discutibile - articolo, il giornalista Giancarlo Dotto descrive il tennis di Sinner come una “sequenza apocalittica di pallate”, un “incubo ipnotico senza fine, un modo sicuro per spedirsi all’inferno” e aggiunge che “celebrando i Sinner, stiamo celebrando la nostra morte e la nostra noia, che poi sono la stessa cosa”. Le parole di Dotto sono la naturale conseguenza di ciò che è successo all’Australian Open, con l’italiano “colpevole” di aver dominato il torneo dall’inizio alla fine - se si esclude quel passaggio delicato contro Rune al quarto turno. I toni dell’articolo - che a me sembrano inutilmente provocatori -, partono tuttavia da un presupposto che può avere un suo perché.
Pur non essendo un fan del gioco di Sinner, però, mi tocca ricordare ai critici che le partite si giocano in due e che se la finale di Melbourne è stata “noiosa”, la colpa non è (solo) di Sinner - che tra l’altro ha vinto la partita, quindi ha ragione a prescindere -, ma piuttosto del suo avversario Alexander Zverev, il quale non solo ha un tennis che non brilla per coraggio e creatività, ma che non è stato capace di cambiare marcia e di andarsi a prendere la partita. Va detto, tra l’altro, che quando Sinner gioca con avversari arrembanti e determinati, le partite sono belle e i punti spettacolari non mancano - è davvero necessario ricordare gli scontri epici con Alcaraz (come l’ultimo in finale a Pechino) o con lo stesso Rune? Noiosi pure quelli?
Se proprio si vuole definire Sinner un “pallettaro” - e in questo caso dovremmo dire lo stesso anche di Novak Djokovic, cioè del tennista più vincente della storia - va detto che i “regolaristi” sono sempre esistiti e che il bello del tennis sta anche nell’opposizione di stili differenti - abbiamo già dimenticato le sfide leggendarie tra Federer e Nadal? C’è pallettaro e pallettaro, insomma. C’è quello che annoia e non arriva (quasi) mai fino in fondo - vedi Zverev -, quello che vince, ma è uno stronzo - vedi Lendl - e chi, come Djokovic e Sinner, ha portato quella logica alla sua massima espressione, diventando ingiocabile praticamente per chiunque. Ora sta agli altri trovare una soluzione per imporsi. E stando a quello che si è visto in queste ultime due settimane nei tornei di Dallas, Rotterdam e Montpellier, c’è più di un motivo per sperare. Anche al di là dell’ovvio, cioè di Carlos Alcaraz.
Denis Shapovalov: a volte ritornano, per fortuna
Nell’ATP 500 texano patrocinato da John Isner, il tennista canadese ha compiuto un’impresa inattesa, conquistando il titolo dopo aver battuto tre top 10 e un top 30 (nell’ordine, le teste di serie numero 1, 6, 3 e 2 del torneo). L’ha fatto senza snaturarsi, affidandosi al tennis fantasmagorico che tutti conosciamo e che mi conquistò per sempre dopo quella partita contro Nadal a Montreal nel 2017: cioè giocando a tutto campo, servendo da Dio - la sua prima da sinistra sulla T a più di 130 miglia all’ora è un capolavoro di tecnica e potenza -, proiettandosi in avanti appena possibile, colpendo la palla sempre in anticipo, ferendo sanguinosamente con le sue velenose uncinate mancine cariche di effetto (quando colpisce col dritto incrociato) e spesso finendo la vittima con un rovescio lungolinea piatto, la cui esplosività esecutiva è una delizia estetica che lascia a bocca aperta. Ne sa qualcosa Ruud - sempre una benedizione incontrarlo in finale - che, dominato nettamente, a un certo punto non sapeva più cosa fare per arginare i tempestosi arrembaggi del rivale.
Shapovalov viene da sempre considerato un giocatore fragile dal punto di vista psicologico, troppo poco costante nei risultati e anche poco disposto ad allenarsi con la dovuta serietà - parola del suo ex allenatore Mikhail Youzhny. Classe 1999, eterna promessa e già semifinalista a Wimbledon nel 2021 (nonché già numero 10 del mondo), rischiavamo di dimenticarci di lui, anche a causa dei problemi al ginocchio con cui ha combattuto dall’estate del 2023 e che ne hanno influenzato non poco il rendimento. E invece la settimana scorsa il suo gioco infuocato ha soverchiato il “power tennis” di Fritz e quello ancora più noioso - se possibile - di Paul e di Ruud. Segno che se sta bene fisicamente e riesce a non scomporsi nei momenti decisivi, può ancora fare male a tutti. Emblematico in questo senso il punto nell’ultimo game della finale, in cui serviva per il trofeo, quando, sotto 15-30, va a prendersi con estremo coraggio una volée bassa di rovescio che ribalta lo stadio. Ecco, nella speranza che non sia solo un fuoco di paglia, il ritorno di Shapo è proprio una bella notizia per il tennis.
Il talento anomalo di Mattia Bellucci
Altro giocatore mancino, altra goduria nel vederlo giocare. E in questo caso c’è anche l’orgoglio che si tratti di un italiano. Mattia Bellucci è l’ennesima promessa nostrana che sta muovendo i suoi passi verso la vetta della classifica ATP, e forse - assieme a Sonego, ma non per gli stessi motivi - è il più anomalo del lotto. Pur non essendo molto alto, è in grado di produrre un servizio molto velenoso - e dalla dinamica esteticamente invidiabile -, soprattutto quando serve da sinistra e trova angoli che spazzano l’avversario fuori dal campo, spesso costringendolo a subire una volée letale. Molto vario nelle soluzioni che sceglie di utilizzare - la smorzata incrociata di rovescio è fenomenale -, si distingue per una fame agonistica fuori dal comune che se Musetti ne avesse il 5 per cento sarebbe già in top 10.
La settimana scorsa, a Rotterdam - un ATP 500 pieno di giocatori fortissimi - è riuscito a issarsi fino in semifinale, sbarazzandosi - tra gli altri - di un certo Daniil Medvedev, che è in un periodo molto delicato della sua carriera, va detto, ma che di sicuro è uno a cui non piace perdere e che non molla fino alla fine, poi di Tsitsipas, dovendo però arrendersi in semifinale all’australiano De Minaur, il quale - ricordiamolo - è reduce dai quarti agli Australian Open e che escludendo Sinner e Alcaraz sembra capace di poter battere chiunque in questo periodo. Molto determinato e sicuro di sé, pur essendo persino privo di uno sponsor, ha addirittura osato ridimensionare le imprese di re Sinner, dichiarando di essere in grado di fare come lui. A molti è sembrato un po’ strafottente, ma forse è anche giusto esserlo a ventitré anni - non tutti hanno il carattere di Jannik. In ogni caso, speriamo che abbia ragione lui.
Che ne è stato di te, Aleksandar Kovacevic?
Poco prima del suo exploit a Rotterdam, Bellucci è stato liquidato in due set a Montpellier da un certo Aleksandar Kovacevic, un giocatore di 26 anni di padre serbo e madre bosniaca, ma nato a New York. Uscito dalle qualificazioni, Kovacevic ha battuto il campione uscente Bublik - vabbè, se non è in giornata gli può succedere di perdere contro chiunque - e la testa di serie numero uno del torneo Andrey Rublev, issandosi fino alla finale, poi persa contro un Auger-Aliassime in grande spolvero, ma che comunque ha dovuto sudare non poco per vincere al tie-break del terzo e che ha anche speso parole di ammirazione per il suo collega al momento della premiazione, definendolo come una specie di Federer.
“Fino a ieri guardavo gli highlights di Rublev sul divano con gli amici e un pacchetto di Doritos tra le mani e oggi l’ho battuto” - ha dichiarato Kovacevic alla fine del match, quasi senza parole. Questo perché in effetti ha giocato una settimana incredibile, un tennis talmente stellare che ti viene da chiedergli: ma dov’eri finora? Sono rimasto talmente ammaliato dal suo gioco aggressivo e completo, dal suo rovescio a una mano sontuoso e solido, dalla qualità a rete e anche da una discreta cazzimma, che non capisco come mai non sia mai riuscito a spingersi al di là del 72° posto nel ranking. L’americano non è giovanissimo, ma neanche a fine carriera, quindi mi auguro che possa trovare la chiave per riprodurre il tennis mostrato in Francia due settimane fa. Anche lui potrebbe essere una bella boccata d’aria, uno dei tanti potenziali antidoti contro la noia di un torneo scontato. Perché a noi non basta che Sinner vinca; vogliamo che vinca divertendoci.